venerdì 6 luglio 2007

Note sul fermo in moto 2 bis

Abu Ghraib. Fotografie-choc
di Gerardo Regnani06/06/2005
Le immagini relative alle crudeltà commesse dai secondini ai danni dei prigionieri detenuti nel carcere di Abu Ghraib, in Iraq, sono tornate di recente agli onori della cronaca in relazione ad alcuni sviluppi delle vicende giudiziarie ad esse collegate. Ma non è dell’aspetto legale che qui ci occuperemo, né di altri aspetti relativi alle questioni (come quelle politiche, ad esempio) che quella guerra ha sollevato. Il pretesto offertoci dal loro riemergere sembra poter essere utile, piuttosto, per riflettere sulle tracce che ci hanno o dovrebbero eventualmente averci lasciato queste immagini.
La riflessione si ispira ad uno scritto di Roland Barthes (1915-1980) intitolato appunto “Fotografie-choc” e contenuto, insieme ad altri testi scritti tra il 1954 e il 1956, nella celebre raccolta Miti d’oggi. Il libro fu pubblicato in Francia nel 1957, successivamente tradotto in italiano dall’Editore Lerici nel 1962 e riedito da Einaudi nel 1974. Soggetto dell’analisi barthesiana furono, anche in quel caso, delle immagini relative ad eventi cruenti, benché appartenenti ad un genere di reportage che potremmo definire, oltre che diverso, più “tradizionale” rispetto a quello proveniente dall’Iraq, praticamente “fatto in casa” da alcuni degli stessi attori protagonisti; aspetto, questo, che rappresenta una delle peculiarità di queste immagini.
Nel suo breve saggio Barthes distingue le immagini di cui tratta, innanzi tutto, in due gruppi, ovvero: quelle realizzate da un fotografo (reporter?), da una parte, e quelle (generiche) “di agenzia”, dall’altra. Quest’ultima tipologia, seppure con qualche forzatura, sembrerebbe potersi adattare alle immagini realizzate nella prigione irachena e poi circolate, praticamente in tutto il mondo, grazie anche all’opera amplificatrice della rete. Di fatto – escludendo, in questa sede, un eventuale discorso inerente plausibili “regie” occulte - non si è trattato di un singolo “autore” che, materialmente, ha eseguito le riprese, bensì di diversi che, in varie circostanze, hanno realizzato queste impressionanti fotografie. Una distinzione importante, se paragoniamo queste riprese ad un reportage “classico” realizzato da un professionista, che può aiutarci a comprendere meglio l’insieme dei segni lasciati da queste immagini sull’immaginario collettivo.
Secondo Barthes, nel caso in cui ci si trovi di fronte ad immagini realizzate da un “comune” reporter, sebbene talune fotografie vengano realizzate con lo specifico intento di impressionare i suoi destinatari, esse non sempre riescono nel loro intento proprio perché risultano sovente compromesse dalla loro intenzionale componente narrativa di fondo. L’autore, sostituendosi premeditatamente allo sguardo dell’ipotetico spettatore finale, tenderebbe inevitabilmente ad enfatizzare il “suo” racconto al punto da poter far sembrare eccessivamente costruita l’eventuale mostruosità “documentata” dalle fotografie. In tal modo, poche di queste riuscirebbero davvero a produrre un autentico shock, limitandosi piuttosto, nella generalità dei casi, solo a significarlo. Sono immagini che, diversamente da quanto sembrano veicolare quelle prodotte nel penitenziario di Abu Ghraib, risultano sovente troppo efficienti, troppo ingegnose per poter emozionare chiunque indistintamente.
Il fenomeno, se osservato da una prospettiva mcluhaniana, parrebbe delineare, peraltro, i contorni di un medium “caldo”, incline a non lasciare ai suoi destinatari molti spazi interpretativi da completare, piuttosto che uno “freddo”, in grado, invece, di stimolare un esteso contributo partecipativo da parte dei soggetti coinvolti nella visione.
Le “fredde” immagini della galera irachena, nonostante manchino proprio di quella perfezione caratteristica di un lavoro ben composto – quale potrebbe essere un qualsiasi reportage “tradizionale” - sembrano, tuttavia, molto più adatte di altre a stimolare la nostra attitudine al giudizio. Differentemente, infatti, da lavori sovrabbondanti di suggerimenti, le immagini prodotte in Iraq non sembrerebbero sempre ed altrettanto gremite di elementi di riferimento e, perciò, parrebbero consentirci una maggiore libertà ideativa, consentendoci di costruire più liberamente una “nostra” storia personale, meno vincolata dalle indicazioni narrative dell’autore originario. Una libertà di invenzione che si alimenta anche della natura (solo apparentemente) “ordinaria” di queste immagini così inquietantemente vicine ad un “banale” – per quanto macabro - album di famiglia. Le immagini di quelle vessazioni fisiche e psichiche non sembrano (superficialmente, s’intende) vincolate a priori da un preconfezionato ed inalterabile obbligo all’accondiscendenza ideologica, tutt’altro; grazie alla loro “semplicità” di facciata ci provocano, costringendoci, anzi, a schierarci contro quell’orrore tanto concettuale quanto materiale. Ci invitano, dunque, a completare quella terribile narrazione della quale abbiamo soltanto delle “tracce” fotografiche. Delle impronte “mute” che ci chiedono di partecipare, integrando la frammentaria narrazione visuale che ci è stata offerta senza essere già stata, in precedenza, fatta del tutto propria dai suoi “autori reali”.
Ciò detto, i creatori di queste immagini, plausibilmente, non intendevano né spiazzare né turbare il “loro” pubblico, al contrario cercavano la “divertita” compartecipazione di un’audience immaginaria che, in luoghi e momenti differenti, avrebbe poi visto queste riprese. C’è stata, quindi, una tendenza a voler riassumere in queste scene raccapriccianti i momenti topici di una “allegra” vita carceraria, benché, a differenza di opere con maggiori pretese narrative, non si intraveda un’accanita insistenza sul “momento più raro di un movimento” anche se, di fatto, di istanti pieni di eccessi, in realtà, si è trattato.
In ogni caso, uno degli elementi caratteristici di queste agghiaccianti icone continua ad essere l’assenza apparente di una “costruzione” di fondo, motivo per cui gli attimi congelati nelle inquadrature non sembrano, almeno ad un primo sguardo, essere particolarmente meditati, analogamente ai tanti altri ritagli della “realtà” che spesso intravediamo più o meno distrattamente nel turbinio massmediatico contemporaneo.
Queste immagini sono, però, sembrate in grado di sopravvivere al disattento ed effimero interesse dei più, smuovendo qualcosa – un humus culturale ed ideologico preesistente, ovviamente – che si è alimentato, appunto, dell’orrore segnalato da queste “testimonianze”. Un effetto, si è detto, paradossalmente enfatizzato proprio dalla non sempre lineare leggibilità di molte di queste immagini, la cui essenza scandalosa, in qualche caso, deve essere ricercata e perfezionata da ciascuno di noi, piuttosto che essere già impeccabilmente preconfezionata da qualcun altro. In questa ovattata sinergia, in questo impercettibile contratto con lo spettatore finale, si delinea ancor più marcatamente l’agghiacciante “fotogenia” di queste immagini. Una capacità di resa che si nutre dell’incredulità del pubblico che, dopo aver “interpretato” quanto ha visto, tende comprensibilmente a trasalire di fronte al terribile significato di simili visioni.
Queste fotografie sembrano, inoltre, tanto più efficaci rispetto ad altre più ambiziose proprio per la loro natura di istantanee intermedie – mediane, potremmo dire, ove la medianità sarebbe da considerarsi, secondo la critica bordieuiana, l’anima più profonda ed autentica della fotografia – perennemente in bilico tra gli estremi di una schiacciante referenzialità dell’immagine, per un verso, e l’enfatizzazione simbolica dell’evento rappresentato, dall’altro. Nel caso di Abu Ghraib, questa intesa sinergica ha registrato la convergenza di elementi di rilievo quali la tangibile letteralità delle raffigurazioni e l’integrazione narrativa che, in solitaria o attraverso il “rinforzo” mediatico, è stata poi fatta da coloro che hanno visto queste riprese.
Il completamento che queste immagini – una versione “fredda” del medium fotografico, si ipotizzava – è stato reso certamente più denso anche dalla distanza di quelle “pratiche” dal fare comune di tanti di noi, dalla “lontananza” non solo simbolica di molti spettatori da quell’inferno reale ed intellettuale.
La naturale ambiguità della fotografia imponendo, comunque, il coinvolgimento di chi “vede” ha fatto il resto, stimolando, in questo caso, il desiderio di chiarire, di comprendere appieno il perché del pathos, della drammaticità estrema di questi “documenti” visuali. Il giudizio critico successivo è il frutto di una cointeressenza che, rendendo protagonista chi guarda queste immagini, attenua la funzione demiurgica - creatrice ed ordinatrice - del fotografo originario e, più in generale, della fotografia nel suo insieme, amplificando, quindi, la compartecipazione dell’osservatore che non trovandosi di fronte ad un racconto già tutto scritto potrebbe sentirsi coinvolto nella funzione narrativa.
Racconto che pur offrendoci solo un’impressione lacunosa di quella raccapricciante dimensione ci pone, in ogni caso, nella condizione di poter ben immaginare, seppure da lontano, l’orrore complessivamente veicolato da quella comune e pervasiva estensione della mente che è, in definitiva, la protesi fotografica.
Non credo ci sia bisogno, da parte mia, di aggiungere qualunque commento alle immagini e all'analisi che ne segue... liberi voi di farlo, anzi sarebbe auspicabile, forse!
Solo questo..cercavo notizie e approfondimenti su"I miti d'oggi", appunto, e mi sono imbattuta in queste troppo "comuni", purtroppo, realtà.

giovedì 5 luglio 2007

Note sul fermo in moto 2

“Il bello è sempre bizzarro”
(C. Baudelaire)

“Non so perché la gente si aspetti che l’arte abbia un senso, visto che accetta l’idea che la vita sia priva di senso. Io sono della scuola Western Union. Se vuoi mandare un messaggio, rivolgiti alle Western Union”
(David Lynch)


Girata interamente in digitale, l’ultima poderosa opera di Lynch, dopo l’imbricamento fantastico di Muholland Drive, getta un nuovo sguardo sulla città di Los Angeles invertendone la direzione, non più dall’alto delle colline di Hollywood verso il tappeto lucente della città, ma dal basso in su, dalla periferia al centro, dal Sunset boulevard ai riflettori con spiazzanti puntate in una Polonia di mercenari importatori di prostituzione. Siamo di fronte ad un testo che difficilmente si lascia imbrigliare in categorie, in tentativi di riduzione critica richiedendo prima di tutto un approccio intuitivo e offrendo la possibilità di compiere una vera e propria esperienza nel senso più vero e proprio che il cinema intende. Afferma lo stesso Lynch: “Mi piace pensare che si possa entrare a far parte di uno spazio che è uno spazio filmico, fosse solo per un solo momento… in questo spazio visivo e sonoro, si dovrebbe conoscere qualcosa una sensazione, impossibile se non ci fosse il cinema”. Materia incandescente quella di questo film con cui faremo i conti ancora per anni nel tentativo inesausto di venirne a capo. Quanto finora affermato inquadra in modo adeguato il maldestro tentativo che compirò per stabilire una segnaletica provvisoria e alcune suggestioni che l’opus lynchiano mi ha trasmesso sottolineandone la parzialità e costitutiva soggettività. Per penetrare il viluppo diegetico del film, occorre prendere le mosse dalla continua sovrapposizione di nuclei di riferimento come spazio tempo, presente passato, sogno realtà, che interferiscono in continui cortocircuiti percettivi. Si parte dal remake di un film Il buio cielo del domani per cui viene scritturata l’attrice Nikki Grace, interpretata da una splendida Laura Dern; questa circostanza è preannunciata dalla vicina onnisciente, in cui si può riscontrare un sorta di personificazione correlativa del regista, che come tale suggerisce lo sviluppo del racconto. A partire dalle prime riprese del film incomincia lo sfasamento dei piani temporali che crea una pulviscolare moltiplicazione delle direzioni di sviluppo narrativo, che, ancora una volta, diventa rappresentazione del lavoro del regista, il quale ammicca di fronte alla sua opera come in quadro di Velasqez. Come in Strade perdute assistiamo al dissolvimento delle identità e al loro irrefrenabile moltiplicarsi. Nikki appare ubiqua e riesce a scomparire nel luogo proprio di ogni apparizione/rappresentazione: il set cinematografico. I personaggi diventano assolutamente interscambiabili sul piano cronologico, Nikki e Devon diventano alternativamente gli interpreti del remake, dello script originale; lei ha un marito geloso, o forse un marito polacco invischiato nel malaffare; lei fa l’attrice oppure la prostituta, eccetera. La tranquilla scansione degli avvenimenti che ci fa stabilire placidamente un prima e un poi, una direzione univoca, che con l’aiuto dell’abitudine, come voleva Hume, ci permette di stabilire solidi rapporti causali, è completamente stravolta. Tracce indiziali sono astutamente sparse per il film, ma repentinamente smentite, banali dati quotidiani si inseriscono nel groviglio onirico/narrativo. Tutto questo, a sua volta, viene presagito nella sitcom dei conigli (che è anche una impietosa e ironica critica dello squallido gusto per la telenovela nazionale) dove lo scambio di battute dal sapore straniante sparge nuovi indizi interpretativi, per poi fare cortocircuito con lo sviluppo narrativo. Vi è poi l’incontro di Nikki con quello che si rivela essere, in uno spiazzante esempio di mise in abyme, il proprietario della sala in cui si proietta Inland Empire, cui la protagonista racconta gli sviluppi della propria vita e di altri possibili plot narrativi, che rimangono privi di seguito e che diventano rappresentazione del momento germinativo dell’idea narrativa. A concludere il film e ad indicare la presenza di altre possibilità del narrare spunta un altro set che viene mostrato sui titoli di coda, ad esaltare ulteriormente l’apoteosi e le possibilità espressive di un mezzo qui completamente libero quelle logiche spettacolari esemplarmente denunciate da Debord e che hanno reso in altro luoghi il mezzo cinema del tutto asfittico. E proprio come voleva il pensatore francese questo film opera un vero e proprio detournement rispetto alle modalità rappresentative del mezzo, fa implodere le logiche holliwoodiane, spinge alla deriva i generi parodiandoli e illuminandoli con accensioni oniriche. Un film che non si centra su una storia, ma che diventa rappresentazione della la visione, in tutti i suoi stadi, dalla manifestazione alla procreazione. Un’opera che può essere letta come materializzazione visiva degli infinti mondi possibili nel continuo spazio-temporale, trovando in questo in suo antecedente illustre in L’anno scorso a Marienbad di Resnais. Di questo ultimo Deleuze scrive “la prima novità di Resnais è la scomparsa del centro o del punto fisso” . Come in Inland Empire in Marienbad troviamo un riecheggiare continuo delle stesse frasi, delle stesse situazioni, delle stesse immagini in contesti temporali e spaziali diversi. Naturalmente il film inizia con una rappresentazione teatrale, e cosa vi vediamo raccontato? La stessa vicenda che vedremo nella diegesi. Come osserva Deleuze a proposito di Marienbad “non è più, o non è più solo, il divenire indiscernibile di immagini distinte, sono alternative indecidibili tra cerchi di passato, differenze inestricabili tra punte di presente”. Una molteplicità di situazioni sono ripetute al punto da rendere indistinguibile, o forse superflua, la differenza tra la realtà e la sua rappresentazione, tra il ricordo vero e quello falso, tra il presente e il passato. Per evocare la forza della ripetizione e lo sfaldamento di un unico enunciato su diversi piani e punti di vista, dev’essere messa in campo una dissonanza tra questi piani. Situazioni di attrito tra diversi piani si ripeteranno lungo tutta il corso della pellicola e la dissonanza si fa sempre più stridente. I piani collidono e si sfaldano. Il differimento è sempre differito rispetto a un altro differimento. Continuando in questo deriva teorico-filosofica potremmo trovare nella rappresentazione del film di Resnais e ancora di più in quello di Lynch un modello della teoria dei mondi possibili applicata da Eco ai testi narrativi in Lector in Fabula. “Per far sì che non ci si occupi dell’enunciazione come qualcosa che nel passaggio dal virtuale all’attuale scarta tutte le potenzialità non attualizzate, ma appunto per riportare tutte queste potenzialità nell’interpretazione del testo. Il mondo possibile, così come la struttura di genere, secondo Todorov, è un orizzonte di attesa nel testo”. Nei film in questione non troviamo un semplice passaggio da un mondo ad un altro, ma una condizione liminare di perenne accessibilità tra diversi mondi possibili. Questo modo di rappresentazione trova il suo riferimento più immediato negli spazi della geometria non euclidea di Riemann. Dice Deleuze a proposito dei film di Bunuel, che come Marienbad e Inland Empire mostrano una molteplicità di mondi, in cui un avvenimento può accadere: “Non sono punti di vista soggettivi (immaginari) in uno stesso mondo, ma uno stesso avvenimento in mondi oggettivi differenti, tutti implicati nell’avvenimento, universo inesplicabile”. In Inland Empire lo sfaldamento, però, avviene su più piani contemporaneamente tutti afferenti a diversi sfondi interpretativi. Una rappresentazione di questo la troviamo nello spazio di Hilbert “Struttura che mostra l’infinita molteplicità di possibili messe in prospettiva di una vicenda attraverso un ground interpretativo, o punto di vista, e una successiva sovrapposizione di tutti i mondi possibili in cui si può articolare una vicenda da quel punto di vista. Si dovrebbero dunque immaginare una molteplicità di superfici riemanniane corrispondenti a ogni ground”. In uno spazio di infinite possibilità l’attualizzazione narrativa diventa il collasso di tutte le possibili alternative presenti. Ogni rappresentazione unitaria tenderebbe ad essere come l’esito finale e il punto di arrivo di una progressiva selezione di elementi operata dal soggetto. Portando alle estreme conseguenze tale impostazione si potrebbe, forse, intendere l’io-qui-ora come punto di arrivo e non più come origine. Per tre ore di rappresentazione cinematografica mi sembra una bella e ardua conclusione!

Chiedo scusa per aver sbrodolato un po’ troppo, ma l’entusiasmo nel parlare di questo film straordinariamente denso mi ha preso la mano. Come alternativa sempre aperta si può ignorare il presente post.

mercoledì 4 luglio 2007

Qual falena attratta dalla fiamma, ovvero INLAND EMPIRE

Accade talvolta d'essere colti da un moto di resipiscenza quando, dopo un ciclo lunare di attesa, il tempo è propizio per un incontro atteso, ma la scintilla non scocca ad innescare la reazione a catena che porta al calore della fiamma.
David Lynch è geniale. (No, è solo uno che si diverte a tue spese, Spettatore ignaro).
INLAND EMPIRE è un'esperienza sensoriale unica, un flusso di coscienza nel quale perdersi e ritrovarsi continuamente, come in un labironto dai muri mobili. (Non dire fesserie, hai avuto emicrania e dolori psicosomatici, hai cercato un senso dall'inizio alla fine e ti sei sentito preso in giro).
CONSIGLIATO PER: sofferenti di insonnia; laureati in filosofia biondi con gli occhi azzurri (secondo me il colore degli occhi è fondamendale, conoscevo un altro sciopenauer ed aveva lo stesso sguardo); ottimo per fare uno scherzo, mettendosi d'accordo prima in gruppo e facendo credere ad una persona un po' spocchiosa che tutti lo hanno capito, ma che non glielo spiegano per non rovinargli il gusto (ma davvero non l'hai capito? Guarda che alla fine torna tutto...I conigli, i conigli sono fondamentali).
SCONSIGLIATISSIMO PER: donne in gravidanza; impazienti; razionalisti praticanti; praticanti di arti marziali e tiro sportivo (per il bene del televisore).

Siete curiosi? Non vi resta che mettervi alla prova. In fondo il film (ma non è un film, è tutto girato in digitale) dura solo tre ore, e tutto sommato ne vale la pena.