venerdì 13 luglio 2007

Gran Prix viral

Quest'anno il Gran Prix di Cannes è stato assegnato ad un video nato come viral, e poi passato in tv unicamente per poter partecipare al concorso. Si tratta (ma non ha molta importanza) di "Evolution" per Dove, il noto sapone, realizzato da Ogilvy & Mather Canada. La giuria ha addirittura deciso un cambio di categoria del video per potergli assegnare il premio più ambito. Se volete vedere il video non avrete alcuna difficoltà a trovarlo, è ovunque! Ma non è questo il punto. Ha vinto perchè era un viral. A detta di molti, non era il video migliore. E' stata (giustamente o no) premiata la strategia sottostante il video. E' un fatto storico per l'advertising. La giuria ha voluto premiare il coraggio e l'abilità di usare bene i nuovi strumenti, che sono ormai noti a tutti ma che è difficile gestire. In pratica un bel casino, in termini tecnici, of course.
Ah, ricordate il post di Matt sul viral mktg? L'allestimento dell'aereoporto di Venezia stile casinò ha vinto il bronzo nella sua categoria, uno dei pochissimi exploits italiani. Per il resto ci hanno sbranato.
Più lavoro per noi,no?

Se l’infinito diventa polvere

“chi non sa rendersi conto di tremila anni resta all’oscuro, ignaro, vive alla giornata”
(J. W. Goethe)

Mi è capitato in questi giorni di affrontare, finalmente dopo mesi di procrastinazioni, la lettura di uno di quei libri che costituiscono un incontro carico di suggestioni e ricchezze inattese; un libro che racconta dell’inesauribilità del tentativo di penetrare l’universo del senso, dimostrando come le parole, usate spesso distrattamente, siano in grado di creare un mondo con tutte le sue coordinate. “Vi sono parole fatte fluitare dalle onde dei secoli remoti; giungono intatte sino a noi, ma non si possono accogliere solo col suono delle loro sillabe, occorre auscultarle acutamente per sentirvi dentro il loro segreto, come in una conchiglia si sente l’eco di oceani abissali”. Il libro cui mi riferisco è: L’infinito un equivoco millenario di Giovanni Semerano, un volume che ha esercitato su di me una notevole impressione spingendomi a scrivere queste brevi notazioni. Come osserva Emanuele Severno “i libri di Semeraro sono una festa per l’intelligenza”, una sfida nei confronti di un sapere che viene chiamato a rimettersi in gioco. La rivoluzionaria tesi alla base di questo saggio, come di tutte gli studi di questo grande filologo che ha speso una intera vita a scavare sul senso e dentro le parole, è che alla origine della civiltà del nostro continente ci sia il mondo culturale, le antiche lingue del vicino Oriente, l’accadico, il sumero, “lingue, cioè che dettero voce al pensiero, alla scienza, al fervore religioso congiunto al fascino del misterioso nel cosmo, del quale l’uomo può sentirsi per un attimo centro per essere sommerso, come Gilgameš, nella disperata certezza delle fine di ogni orgoglio”. Supportando il suo discorso con acribia degna di nota Semerano dimostra dunque che il ricorso all’accadico, come lingua antichissima di più larga documentazione, dispensa dal ricorso a lingue affini, e sostituisce il rituale richiamo all’indoeuropeo congetturale dei manuali e dei dizionari etimologici. Uno dei risultati più interessanti dell’applicazione di questa teoria si ha in relazione alla traduzione del celeberrimo detto di Anassimandro, cui è appunto dedicato il volume di cui parlo. Secondo la traduzione corrente il detto di Anassimandro viene reso in questi termini: “il principio degli esseri è l’infinito… In ciò da cui gli esseri traggono la loro origine, ivi vi si compie altresì la loro dissoluzione, secondo necessità: infatti reciprocamente scontano la pena e pagano la loro colpa secondo l’ordine del tempo”. Nel suo libro Semerano dimostra che il termine utilizzato da Anassimandro e cioè Apeiron, la prima parola della filosofia, solitamente tradotto con il termine infinito secondo la lezione di Platone e Aristotele ripresa da tutta la storia della filosofia, in realtà vuol dire molto più semplicemente terra, polvere, fango derivando dall’accadico eperu, vicino al semitico apar. Il detto di Anassimandro parlerebbe, in virtù di questa nuova impostazione, della terra, la polvere, l’apeiron dal quale nascono e al quale ritornano gli esseri, rivelando significative affinità con la sentenza biblica e quindi con la cultura semitica, dove il creatore plasma il primo uomo con l’apar, la polvere della terra, cui l’uomo è destinato a ritornare dopo la maledizione divina. L’apeiron, che avrebbe un significato più modesto e vicino all’acqua di Talete e all’aria di Anassimene, come infinito ha sollecitato per ventitrè secoli le acuzie critiche degli interpreti, una storia che va da Aristotele fino ad arrivare alle pagine piene di pregnanza filosofica di Severino e Heidegger, un prodigioso sforzo di penetrazione che parla una volta di più dell’inappagato desiderio umano di assoluto cui potremmo apporre come epigrafe conclusiva le parole di Novalis: “Cerchiamo dovunque l’incondizionato e troviamo sempre e soltanto cose”. Credo che anche solo questi brevi richiami illustrano la portata dell’ipotesi di Semerano, uno studioso che nel corso della sua attività non ha trovato in ambito accademico il giusto grado di considerazione, probabilmente perché la sua è una proposta che fa vacillare apparati culturali, autorità e poteri collegati a quegli apparati. Avvicinarsi a questa nuova prospettiva è, comunque, una avventura degna di essere intrapresa, nella consapevolezza che “il futuro ha un cuore antico, e avviare un nuovo rapporto culturale con il remoto passato salda una nuova unità spirituale fra noi e i popoli scomparsi che come astri spenti, continuano a irradiare il lucente messaggio che giunge sino a noi. A essi mancò il dovuto riconoscimento di essere alle origini operanti sugli avvenimenti dei nostri destini”.

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...e pure i video!! Non lo ricordo più! Sono peggio di mia nonna in quanto a memoria!!!!

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... e anche i video!!!! Non lo ricordo più!!! Sono peggio di un'80enne!!!

Aiuto!!

Ragazzi qualcuno mi sa dire come inserire un power point nel post? Vorrei farvelo vedere ma non so come fare!!!!!

mercoledì 11 luglio 2007

lunedì 9 luglio 2007

Abu Ghraib: dalla banalità del male all’universalismo etnocentrico

Raccolgo l’invito di rox e a partire dalla bella analisi da lei proposta esprimo alcuni spunti di riflessione che vorrei condividere. Il primo dato che mi sento di evidenziare è la palese discrasia fra il nudo orrore documentario testimoniato da quelle immagini che “grazie alla loro semplicità di facciata ci provocano, costringendoci, anzi, a schierarci contro quell’orrore tanto concettuale quanto materiale” e la costruita, occultatrice artificiosità delle dichiarazioni ufficiali, che hanno accompagnato quelle immagini con la decisione di evitare accuratamente la parola tortura. Si poteva al limite ammettere che i prigionieri fossero stati sottoposti ad abusi forse umiliazioni, ma niente di più. Le parole tradiscono intenzioni, alterano, cercano di sovrapporsi artatamente al reale. Sotto questo punto di vista non c’è niente di nuovo: basti ricordare la ferma volontà di evitare la parola tortura, mentre in Ruanda più di 800 mila tutsi venivano massacrati dai loro vicini hutu nel giro di poche settimane, volontà che tradiva la decisione da parte dell’amministrazione americana di non intervenire nella vicenda. Il dato più allarmante che emerge da quelle immagini è, però, proprio quel carattere ordinario che le rende “inquietantemente vicine ad un “banale” – per quanto macabro - album di famiglia”. Queste immagini ci dicono non solo che tali atti sono stati compiuti, ma che chi li ha perpetrati credeva che nel farlo non ci fosse nulla di sbagliato. Se a questo si aggiunge la considerazione che erano destinate a circolare e ad essere viste da molte persone, le fotografie indicano una cosa ancora più agghiacciante: che le si faceva per divertirsi, sicuri dell’approvazione del pubblico cui erano destinate. Ci troviamo di fronte al realizzarsi di uno scenario come quello preconizzato da Anna Arendt, ovvero quello di una società resa ormai atomizzata dall’avvento dell’animal laborans che ha preso il posto dell’homo farber, che nel suo sviluppo più recente “termina nella più mortale e nella più sterile passività che la storia abbia conosciuto”. Un individualismo atomistico e una passività che rendono possibile quella “banalità del male” di cui parla la filosofa nel suo celebre e drammatico resoconto del processo Eichmann. Quando assume il volto di personaggi ordinari per certi aspetti grigi, come hanno dimostrato di essere con le loro dichiarazioni gli autori di tali torture, il male acquista una dimensione orribilmente pervasiva, viene normalizzato e diviene, per l’appunto, drammaticamente banale. Ma la nuda evidenza di quelle immagini costituisce al contempo anche una evidente contraddizione nei confronti di tutto ciò che questa amministrazione ha invitato l’opinione pubblica a credere sulle buone intenzioni dell’America e sull’universalità dei suoi valori. Proprio questa pretesa universalità dei valori occidentali costituisce uno degli aspetti su cui ruota gran parte dell’apparato ideologico che tende ad ammantare l’azione unilaterale dell’America sulla scena mondiale in difesa dei propri interessi. A proposito di questa pretesa afferma Serge Latouche: “l'universalismo è una creazione dell'occidente, perché è un'ideologia occidentale, e una forma di imperialismo culturale: in fondo, è l'identità della "tribù occidentale" (per riprendere il termine di Rino Genovese). Io credo invece che dobbiamo valorizzare l'aspirazione a un dialogo fra le culture, a una coesistenza delle culture. Per questo alla prospettiva dell'universalismo opporrei piuttosto un "universalismo plurale," che consiste nel riconoscimento e nella coesistenza di una diversità, e nel dialogo fra queste diversità. Dietro a tutto ciò sta una questione filosofica molto importante, perché l'universalismo si è fondato sulla credenza in valori "naturali": si pensa che i valori occidentali siano degni di essere diffusi ovunque, che siano migliori dei valori di altre culture, perché li si considera insiti nella natura dell'uomo, si pensa che l'occidente abbia espresso meglio di altre culture ciò che accomuna tutti gli esseri umani”. Particolarmente attuale su questo punto mi sembra l’analisi di Lévi-Strauss, un autore a me molto caro, la cui lettura ha avuto il sapore di una rivelazione. Vorrei tratteggiare alcuni aspetti del pensiero di questo grande antropologo perché lo ritengo il più efficace antidoto contro la pretesa cui si accennava sopra e magari anche per invogliare eventualmente la lettura dei suoi scritti. L’opera di Lévi-Strauss si presenta come straordinario strumento di «attraversamento culturale», che riconosce pari dignità umana alle molteplici forme in cui si manifesta la civiltà. La prospettiva lévi-straussiana impone a riguardo un radicale cambiamento di punto di vista: dove il pregiudizio eurocentrico vedeva confusione, arbitrarietà, egli scopriva ordine e sistematicità, al posto di una mentalità primitiva dominata dal sentimento e dalla affettività, un pensiero riflessivo, profondo e conseguente. Lévi-Strauss parla di pensiero selvaggio mettendo in luce le categorie semantiche e concettuali attraverso le quali i cosiddetti primitivi danno ordine e classificano il mondo naturale e sociale, costruiscono una propria visione del mondo e degli esseri viventi. L’indagine lévi-straussiana sconvolge la quiete conformistica del nostro spirito, la quale era solita assimilare la magia all’ignoranza, il selvaggio all’animale, le credenze totemiche all’incapacità, religiosa e scientifica, di distinguere il destino privilegiato dell’uomo da quello servile dell’animale. Partendo dall’assunto della propria superiorità, l’uomo occidentale fa sì che l’altro, il diverso sia spinto ai margini di un concetto di umanità che assume i tratti ristretti del suo orizzonte culturale. Lévi-Strauss studiando le piccole tribù malanesiane, i Caduvei, i Bororo, i Nambikwara, sottolinea la continuità degli atteggiamenti logici, l’universalità del pensiero mitico e simbolico, insomma ritrova «negli uomini più umiliati e avviliti dalla sorte la comune dignità umana, l’uomo senza aggettivi, al di là dell’antitesi tra civile e selvaggio, colto e illetterato, evoluto e primitivo, uomo bianco e uomo di colore». Si può scorgere in questa riflessione dell’etnologo un distanziamento, metodicamente attuato e per certi aspetti tematizzato, nei confronti di se stessi, che è il principio di ogni etica. Un messaggio etico contenuto in un pensiero interamente speso per dimostrare quali ricchezze alberghino nel cuore delle civiltà definite «primitive» e questa dimostrazione «rappresenta per la nostra cultura, un allargamento “umanistico”, che ha ben pochi esempi nel passato». Questo allargamento umanistico consente di smascherare l’arbitrarietà della nozione di umanità propriamente occidentale e il concetto di civiltà ad essa associato. Facendosi scudo della missione di incivilimento dei barbari, l’Occidente si è lanciato alla conquista delle popolazioni del Terzo Mondo. Lévi-Strauss denuncia i limi etnocentrici della distinzione tra barbarie e civiltà, nonché i rischi di autoespropriazione dell’umanità presenti nel processo di occidentalizzazione indiscriminata. Sono queste le implicazioni più feconde di un pensiero che, ponendosi al di là del falso universalismo etnocentrico, rappresentato dalle forme attuali di espansione occidentale collegate alla globalizzazione, individua nella collaborazione delle culture, rispettosa della loro identità, una necessità imprescindibile. Comprendere e rispettare è la premessa per un mutuo e proficuo scambio. Viviamo in un’epoca caratterizzata da sempre più intensi e accelerati processi di acculturazione. Il superamento del pregiudizio razziale, ideologico o monoculturale, o il loro mancato superamento, condizioneranno il nostro futuro. Se il pregiudizio della monocultura, di cui le foto di Abu Ghraib rappresentano un piccolo estreme esito, con tutto il suo portato di discriminazione, persecuzione, guerre sante, sottosviluppo ed etnocidio, non verrà superato, è facile prevedere un futuro senza speranza. Per questo, considero di grande attualità l’antropologia lévi-straussiana che, portandoci alla presenza dell’Altro, costituisce una salutare scuola di dubbio, secondo la definizione che Cantoni ha dato delle scienze umane. Un «dubbio antropologico» che mette in crisi falsi assoluti, comode certezze e ridesta il gusto della critica in molte menti prigioniere di dogmi perentori.


Approfitto dello spazio per ringraziare da avertiser a rox per la bontà generosa dei vostri commenti con l’unica prosaica eccezione di maschio da caserma. A rox che ho letto interessata a R. Barthes mi permetto di consigliare, come lettura d’approccio a questo straordinario autore, Frammenti di un discorso amoroso, luminoso esempio della sensibilità di Barthes, che afferma la solitudine del discorso d’amore da tutti praticato ma da nessuno sostenuto. Un libro, che in una serie di saggi ordinati secondo la successione alfabetica, testimonia della sua capacità di individuare i più impercettibili movimenti legati a questo sentimento, non fornendo formule ma una superficie lucida di intelligenza con cui specchiarsi, confrontarsi e forse conoscersi un po’ di più.