lunedì 9 luglio 2007

Abu Ghraib: dalla banalità del male all’universalismo etnocentrico

Raccolgo l’invito di rox e a partire dalla bella analisi da lei proposta esprimo alcuni spunti di riflessione che vorrei condividere. Il primo dato che mi sento di evidenziare è la palese discrasia fra il nudo orrore documentario testimoniato da quelle immagini che “grazie alla loro semplicità di facciata ci provocano, costringendoci, anzi, a schierarci contro quell’orrore tanto concettuale quanto materiale” e la costruita, occultatrice artificiosità delle dichiarazioni ufficiali, che hanno accompagnato quelle immagini con la decisione di evitare accuratamente la parola tortura. Si poteva al limite ammettere che i prigionieri fossero stati sottoposti ad abusi forse umiliazioni, ma niente di più. Le parole tradiscono intenzioni, alterano, cercano di sovrapporsi artatamente al reale. Sotto questo punto di vista non c’è niente di nuovo: basti ricordare la ferma volontà di evitare la parola tortura, mentre in Ruanda più di 800 mila tutsi venivano massacrati dai loro vicini hutu nel giro di poche settimane, volontà che tradiva la decisione da parte dell’amministrazione americana di non intervenire nella vicenda. Il dato più allarmante che emerge da quelle immagini è, però, proprio quel carattere ordinario che le rende “inquietantemente vicine ad un “banale” – per quanto macabro - album di famiglia”. Queste immagini ci dicono non solo che tali atti sono stati compiuti, ma che chi li ha perpetrati credeva che nel farlo non ci fosse nulla di sbagliato. Se a questo si aggiunge la considerazione che erano destinate a circolare e ad essere viste da molte persone, le fotografie indicano una cosa ancora più agghiacciante: che le si faceva per divertirsi, sicuri dell’approvazione del pubblico cui erano destinate. Ci troviamo di fronte al realizzarsi di uno scenario come quello preconizzato da Anna Arendt, ovvero quello di una società resa ormai atomizzata dall’avvento dell’animal laborans che ha preso il posto dell’homo farber, che nel suo sviluppo più recente “termina nella più mortale e nella più sterile passività che la storia abbia conosciuto”. Un individualismo atomistico e una passività che rendono possibile quella “banalità del male” di cui parla la filosofa nel suo celebre e drammatico resoconto del processo Eichmann. Quando assume il volto di personaggi ordinari per certi aspetti grigi, come hanno dimostrato di essere con le loro dichiarazioni gli autori di tali torture, il male acquista una dimensione orribilmente pervasiva, viene normalizzato e diviene, per l’appunto, drammaticamente banale. Ma la nuda evidenza di quelle immagini costituisce al contempo anche una evidente contraddizione nei confronti di tutto ciò che questa amministrazione ha invitato l’opinione pubblica a credere sulle buone intenzioni dell’America e sull’universalità dei suoi valori. Proprio questa pretesa universalità dei valori occidentali costituisce uno degli aspetti su cui ruota gran parte dell’apparato ideologico che tende ad ammantare l’azione unilaterale dell’America sulla scena mondiale in difesa dei propri interessi. A proposito di questa pretesa afferma Serge Latouche: “l'universalismo è una creazione dell'occidente, perché è un'ideologia occidentale, e una forma di imperialismo culturale: in fondo, è l'identità della "tribù occidentale" (per riprendere il termine di Rino Genovese). Io credo invece che dobbiamo valorizzare l'aspirazione a un dialogo fra le culture, a una coesistenza delle culture. Per questo alla prospettiva dell'universalismo opporrei piuttosto un "universalismo plurale," che consiste nel riconoscimento e nella coesistenza di una diversità, e nel dialogo fra queste diversità. Dietro a tutto ciò sta una questione filosofica molto importante, perché l'universalismo si è fondato sulla credenza in valori "naturali": si pensa che i valori occidentali siano degni di essere diffusi ovunque, che siano migliori dei valori di altre culture, perché li si considera insiti nella natura dell'uomo, si pensa che l'occidente abbia espresso meglio di altre culture ciò che accomuna tutti gli esseri umani”. Particolarmente attuale su questo punto mi sembra l’analisi di Lévi-Strauss, un autore a me molto caro, la cui lettura ha avuto il sapore di una rivelazione. Vorrei tratteggiare alcuni aspetti del pensiero di questo grande antropologo perché lo ritengo il più efficace antidoto contro la pretesa cui si accennava sopra e magari anche per invogliare eventualmente la lettura dei suoi scritti. L’opera di Lévi-Strauss si presenta come straordinario strumento di «attraversamento culturale», che riconosce pari dignità umana alle molteplici forme in cui si manifesta la civiltà. La prospettiva lévi-straussiana impone a riguardo un radicale cambiamento di punto di vista: dove il pregiudizio eurocentrico vedeva confusione, arbitrarietà, egli scopriva ordine e sistematicità, al posto di una mentalità primitiva dominata dal sentimento e dalla affettività, un pensiero riflessivo, profondo e conseguente. Lévi-Strauss parla di pensiero selvaggio mettendo in luce le categorie semantiche e concettuali attraverso le quali i cosiddetti primitivi danno ordine e classificano il mondo naturale e sociale, costruiscono una propria visione del mondo e degli esseri viventi. L’indagine lévi-straussiana sconvolge la quiete conformistica del nostro spirito, la quale era solita assimilare la magia all’ignoranza, il selvaggio all’animale, le credenze totemiche all’incapacità, religiosa e scientifica, di distinguere il destino privilegiato dell’uomo da quello servile dell’animale. Partendo dall’assunto della propria superiorità, l’uomo occidentale fa sì che l’altro, il diverso sia spinto ai margini di un concetto di umanità che assume i tratti ristretti del suo orizzonte culturale. Lévi-Strauss studiando le piccole tribù malanesiane, i Caduvei, i Bororo, i Nambikwara, sottolinea la continuità degli atteggiamenti logici, l’universalità del pensiero mitico e simbolico, insomma ritrova «negli uomini più umiliati e avviliti dalla sorte la comune dignità umana, l’uomo senza aggettivi, al di là dell’antitesi tra civile e selvaggio, colto e illetterato, evoluto e primitivo, uomo bianco e uomo di colore». Si può scorgere in questa riflessione dell’etnologo un distanziamento, metodicamente attuato e per certi aspetti tematizzato, nei confronti di se stessi, che è il principio di ogni etica. Un messaggio etico contenuto in un pensiero interamente speso per dimostrare quali ricchezze alberghino nel cuore delle civiltà definite «primitive» e questa dimostrazione «rappresenta per la nostra cultura, un allargamento “umanistico”, che ha ben pochi esempi nel passato». Questo allargamento umanistico consente di smascherare l’arbitrarietà della nozione di umanità propriamente occidentale e il concetto di civiltà ad essa associato. Facendosi scudo della missione di incivilimento dei barbari, l’Occidente si è lanciato alla conquista delle popolazioni del Terzo Mondo. Lévi-Strauss denuncia i limi etnocentrici della distinzione tra barbarie e civiltà, nonché i rischi di autoespropriazione dell’umanità presenti nel processo di occidentalizzazione indiscriminata. Sono queste le implicazioni più feconde di un pensiero che, ponendosi al di là del falso universalismo etnocentrico, rappresentato dalle forme attuali di espansione occidentale collegate alla globalizzazione, individua nella collaborazione delle culture, rispettosa della loro identità, una necessità imprescindibile. Comprendere e rispettare è la premessa per un mutuo e proficuo scambio. Viviamo in un’epoca caratterizzata da sempre più intensi e accelerati processi di acculturazione. Il superamento del pregiudizio razziale, ideologico o monoculturale, o il loro mancato superamento, condizioneranno il nostro futuro. Se il pregiudizio della monocultura, di cui le foto di Abu Ghraib rappresentano un piccolo estreme esito, con tutto il suo portato di discriminazione, persecuzione, guerre sante, sottosviluppo ed etnocidio, non verrà superato, è facile prevedere un futuro senza speranza. Per questo, considero di grande attualità l’antropologia lévi-straussiana che, portandoci alla presenza dell’Altro, costituisce una salutare scuola di dubbio, secondo la definizione che Cantoni ha dato delle scienze umane. Un «dubbio antropologico» che mette in crisi falsi assoluti, comode certezze e ridesta il gusto della critica in molte menti prigioniere di dogmi perentori.


Approfitto dello spazio per ringraziare da avertiser a rox per la bontà generosa dei vostri commenti con l’unica prosaica eccezione di maschio da caserma. A rox che ho letto interessata a R. Barthes mi permetto di consigliare, come lettura d’approccio a questo straordinario autore, Frammenti di un discorso amoroso, luminoso esempio della sensibilità di Barthes, che afferma la solitudine del discorso d’amore da tutti praticato ma da nessuno sostenuto. Un libro, che in una serie di saggi ordinati secondo la successione alfabetica, testimonia della sua capacità di individuare i più impercettibili movimenti legati a questo sentimento, non fornendo formule ma una superficie lucida di intelligenza con cui specchiarsi, confrontarsi e forse conoscersi un po’ di più.

3 commenti:

maschio da caserma ha detto...

Caro Gabo, il mio "commento" è contenuto nel post note sul....2 bis, molto più profondo di quello che sembra...ho ancora la pelle d'oca...

gabo ha detto...

errata corrige: la profondità di maschio da caserma è notevole riesce a scorgere i fiori che nascono dal letame come diceva De Andrè

rox ha detto...

Grazie! Già preso appunti...appena possibile recupererò il testo. sembra interessante da ciò che dici. per ciò che hai scritto...come non essere d'accordo...tra nomi che mi vengono in mente a riguardo, su ciò o colui che viene identificato come nemico proprio perchè straniero, diverso e "altro" dall'occidente, ma nello stesso tempo unico termine di paragone per identificarsi come occidentale(...tutto questo secondo alcune teorie), cito, nel mio commento veloce, una parola breve ma significativa: Il "Fardello" dell'Occidente di cui parla Kipling.
Sarebbe bello, in realtà, essere alla frontiera,at the beyond, come dice Homi Bhabha, essere dentro e fuori allo stesso tempo , e a volte se pur in situazioni di ben minore portata mi è capitato. Credo sia il luogo più ricco che una persona possa abitare materialmente e non, sebbene io sia consapevole che forse non siamo tanti "Educati" a questo. I punti di rferimento sono simbolo di stabilità e sicurezza, e forse è anche giusto e bello così. Ma credo che perdere di vista la bussola ogni tanto, ed essere davvero pronti e liberamente disponibili verso l'"altro", senza neanche identificarlo come tale, sia uno dei modi migliori per arricchirsi.
Tempo scaduto! Senza ringraziamenti è sempre un piacere leggere le tue riflessioni.