“Il bello è sempre bizzarro”
(C. Baudelaire)
“Non so perché la gente si aspetti che l’arte abbia un senso, visto che accetta l’idea che la vita sia priva di senso. Io sono della scuola Western Union. Se vuoi mandare un messaggio, rivolgiti alle Western Union”
(David Lynch)
Girata interamente in digitale, l’ultima poderosa opera di Lynch, dopo l’imbricamento fantastico di Muholland Drive, getta un nuovo sguardo sulla città di Los Angeles invertendone la direzione, non più dall’alto delle colline di Hollywood verso il tappeto lucente della città, ma dal basso in su, dalla periferia al centro, dal Sunset boulevard ai riflettori con spiazzanti puntate in una Polonia di mercenari importatori di prostituzione. Siamo di fronte ad un testo che difficilmente si lascia imbrigliare in categorie, in tentativi di riduzione critica richiedendo prima di tutto un approccio intuitivo e offrendo la possibilità di compiere una vera e propria esperienza nel senso più vero e proprio che il cinema intende. Afferma lo stesso Lynch: “Mi piace pensare che si possa entrare a far parte di uno spazio che è uno spazio filmico, fosse solo per un solo momento… in questo spazio visivo e sonoro, si dovrebbe conoscere qualcosa una sensazione, impossibile se non ci fosse il cinema”. Materia incandescente quella di questo film con cui faremo i conti ancora per anni nel tentativo inesausto di venirne a capo. Quanto finora affermato inquadra in modo adeguato il maldestro tentativo che compirò per stabilire una segnaletica provvisoria e alcune suggestioni che l’opus lynchiano mi ha trasmesso sottolineandone la parzialità e costitutiva soggettività. Per penetrare il viluppo diegetico del film, occorre prendere le mosse dalla continua sovrapposizione di nuclei di riferimento come spazio tempo, presente passato, sogno realtà, che interferiscono in continui cortocircuiti percettivi. Si parte dal remake di un film Il buio cielo del domani per cui viene scritturata l’attrice Nikki Grace, interpretata da una splendida Laura Dern; questa circostanza è preannunciata dalla vicina onnisciente, in cui si può riscontrare un sorta di personificazione correlativa del regista, che come tale suggerisce lo sviluppo del racconto. A partire dalle prime riprese del film incomincia lo sfasamento dei piani temporali che crea una pulviscolare moltiplicazione delle direzioni di sviluppo narrativo, che, ancora una volta, diventa rappresentazione del lavoro del regista, il quale ammicca di fronte alla sua opera come in quadro di Velasqez. Come in Strade perdute assistiamo al dissolvimento delle identità e al loro irrefrenabile moltiplicarsi. Nikki appare ubiqua e riesce a scomparire nel luogo proprio di ogni apparizione/rappresentazione: il set cinematografico. I personaggi diventano assolutamente interscambiabili sul piano cronologico, Nikki e Devon diventano alternativamente gli interpreti del remake, dello script originale; lei ha un marito geloso, o forse un marito polacco invischiato nel malaffare; lei fa l’attrice oppure la prostituta, eccetera. La tranquilla scansione degli avvenimenti che ci fa stabilire placidamente un prima e un poi, una direzione univoca, che con l’aiuto dell’abitudine, come voleva Hume, ci permette di stabilire solidi rapporti causali, è completamente stravolta. Tracce indiziali sono astutamente sparse per il film, ma repentinamente smentite, banali dati quotidiani si inseriscono nel groviglio onirico/narrativo. Tutto questo, a sua volta, viene presagito nella sitcom dei conigli (che è anche una impietosa e ironica critica dello squallido gusto per la telenovela nazionale) dove lo scambio di battute dal sapore straniante sparge nuovi indizi interpretativi, per poi fare cortocircuito con lo sviluppo narrativo. Vi è poi l’incontro di Nikki con quello che si rivela essere, in uno spiazzante esempio di mise in abyme, il proprietario della sala in cui si proietta Inland Empire, cui la protagonista racconta gli sviluppi della propria vita e di altri possibili plot narrativi, che rimangono privi di seguito e che diventano rappresentazione del momento germinativo dell’idea narrativa. A concludere il film e ad indicare la presenza di altre possibilità del narrare spunta un altro set che viene mostrato sui titoli di coda, ad esaltare ulteriormente l’apoteosi e le possibilità espressive di un mezzo qui completamente libero quelle logiche spettacolari esemplarmente denunciate da Debord e che hanno reso in altro luoghi il mezzo cinema del tutto asfittico. E proprio come voleva il pensatore francese questo film opera un vero e proprio detournement rispetto alle modalità rappresentative del mezzo, fa implodere le logiche holliwoodiane, spinge alla deriva i generi parodiandoli e illuminandoli con accensioni oniriche. Un film che non si centra su una storia, ma che diventa rappresentazione della la visione, in tutti i suoi stadi, dalla manifestazione alla procreazione. Un’opera che può essere letta come materializzazione visiva degli infinti mondi possibili nel continuo spazio-temporale, trovando in questo in suo antecedente illustre in L’anno scorso a Marienbad di Resnais. Di questo ultimo Deleuze scrive “la prima novità di Resnais è la scomparsa del centro o del punto fisso” . Come in Inland Empire in Marienbad troviamo un riecheggiare continuo delle stesse frasi, delle stesse situazioni, delle stesse immagini in contesti temporali e spaziali diversi. Naturalmente il film inizia con una rappresentazione teatrale, e cosa vi vediamo raccontato? La stessa vicenda che vedremo nella diegesi. Come osserva Deleuze a proposito di Marienbad “non è più, o non è più solo, il divenire indiscernibile di immagini distinte, sono alternative indecidibili tra cerchi di passato, differenze inestricabili tra punte di presente”. Una molteplicità di situazioni sono ripetute al punto da rendere indistinguibile, o forse superflua, la differenza tra la realtà e la sua rappresentazione, tra il ricordo vero e quello falso, tra il presente e il passato. Per evocare la forza della ripetizione e lo sfaldamento di un unico enunciato su diversi piani e punti di vista, dev’essere messa in campo una dissonanza tra questi piani. Situazioni di attrito tra diversi piani si ripeteranno lungo tutta il corso della pellicola e la dissonanza si fa sempre più stridente. I piani collidono e si sfaldano. Il differimento è sempre differito rispetto a un altro differimento. Continuando in questo deriva teorico-filosofica potremmo trovare nella rappresentazione del film di Resnais e ancora di più in quello di Lynch un modello della teoria dei mondi possibili applicata da Eco ai testi narrativi in Lector in Fabula. “Per far sì che non ci si occupi dell’enunciazione come qualcosa che nel passaggio dal virtuale all’attuale scarta tutte le potenzialità non attualizzate, ma appunto per riportare tutte queste potenzialità nell’interpretazione del testo. Il mondo possibile, così come la struttura di genere, secondo Todorov, è un orizzonte di attesa nel testo”. Nei film in questione non troviamo un semplice passaggio da un mondo ad un altro, ma una condizione liminare di perenne accessibilità tra diversi mondi possibili. Questo modo di rappresentazione trova il suo riferimento più immediato negli spazi della geometria non euclidea di Riemann. Dice Deleuze a proposito dei film di Bunuel, che come Marienbad e Inland Empire mostrano una molteplicità di mondi, in cui un avvenimento può accadere: “Non sono punti di vista soggettivi (immaginari) in uno stesso mondo, ma uno stesso avvenimento in mondi oggettivi differenti, tutti implicati nell’avvenimento, universo inesplicabile”. In Inland Empire lo sfaldamento, però, avviene su più piani contemporaneamente tutti afferenti a diversi sfondi interpretativi. Una rappresentazione di questo la troviamo nello spazio di Hilbert “Struttura che mostra l’infinita molteplicità di possibili messe in prospettiva di una vicenda attraverso un ground interpretativo, o punto di vista, e una successiva sovrapposizione di tutti i mondi possibili in cui si può articolare una vicenda da quel punto di vista. Si dovrebbero dunque immaginare una molteplicità di superfici riemanniane corrispondenti a ogni ground”. In uno spazio di infinite possibilità l’attualizzazione narrativa diventa il collasso di tutte le possibili alternative presenti. Ogni rappresentazione unitaria tenderebbe ad essere come l’esito finale e il punto di arrivo di una progressiva selezione di elementi operata dal soggetto. Portando alle estreme conseguenze tale impostazione si potrebbe, forse, intendere l’io-qui-ora come punto di arrivo e non più come origine. Per tre ore di rappresentazione cinematografica mi sembra una bella e ardua conclusione!
Chiedo scusa per aver sbrodolato un po’ troppo, ma l’entusiasmo nel parlare di questo film straordinariamente denso mi ha preso la mano. Come alternativa sempre aperta si può ignorare il presente post.
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2 commenti:
Prezioso Gabo,
qual piacere mi giunge riflesso da tanta passione per un film che, di certo, non avrei mai visto senza il tuo diabolico consiglio. L'esposizione a quest'opera non lascia certo indifferenti, affascinati in un gioco che il regista seduttore conduce fino alla non conclusione. Se ci si relaziona ad un film non solo in termini di fruizione immediata ma in termini di eredità-eco-rimembranza-riverbero Inland Empire si palesa come un prisma nella mente dello spettatore, proprio per il suo assomigliare ad una scatola di vermi aperta.
Mi divertirà riguardarlo tra qualche anno, perchè in fondo è come uno specchio magico, riflette e amplifica ciò che il suo ospite ha già dentro.
Caro Gabriele, non mi sognerei mai di ignorare i tuoi post. Leggerti, come ascoltarti, è sempre un piacevole nutrimento per la mia mente costantemente alla ricerca di tali stimoli. Sono estrememente incuriosita dai Film descritti e carò dui tutto per vederli il prima possibile tenendo in altissima considerazione la tua riflessione piena di anima.
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