venerdì 13 luglio 2007

Se l’infinito diventa polvere

“chi non sa rendersi conto di tremila anni resta all’oscuro, ignaro, vive alla giornata”
(J. W. Goethe)

Mi è capitato in questi giorni di affrontare, finalmente dopo mesi di procrastinazioni, la lettura di uno di quei libri che costituiscono un incontro carico di suggestioni e ricchezze inattese; un libro che racconta dell’inesauribilità del tentativo di penetrare l’universo del senso, dimostrando come le parole, usate spesso distrattamente, siano in grado di creare un mondo con tutte le sue coordinate. “Vi sono parole fatte fluitare dalle onde dei secoli remoti; giungono intatte sino a noi, ma non si possono accogliere solo col suono delle loro sillabe, occorre auscultarle acutamente per sentirvi dentro il loro segreto, come in una conchiglia si sente l’eco di oceani abissali”. Il libro cui mi riferisco è: L’infinito un equivoco millenario di Giovanni Semerano, un volume che ha esercitato su di me una notevole impressione spingendomi a scrivere queste brevi notazioni. Come osserva Emanuele Severno “i libri di Semeraro sono una festa per l’intelligenza”, una sfida nei confronti di un sapere che viene chiamato a rimettersi in gioco. La rivoluzionaria tesi alla base di questo saggio, come di tutte gli studi di questo grande filologo che ha speso una intera vita a scavare sul senso e dentro le parole, è che alla origine della civiltà del nostro continente ci sia il mondo culturale, le antiche lingue del vicino Oriente, l’accadico, il sumero, “lingue, cioè che dettero voce al pensiero, alla scienza, al fervore religioso congiunto al fascino del misterioso nel cosmo, del quale l’uomo può sentirsi per un attimo centro per essere sommerso, come Gilgameš, nella disperata certezza delle fine di ogni orgoglio”. Supportando il suo discorso con acribia degna di nota Semerano dimostra dunque che il ricorso all’accadico, come lingua antichissima di più larga documentazione, dispensa dal ricorso a lingue affini, e sostituisce il rituale richiamo all’indoeuropeo congetturale dei manuali e dei dizionari etimologici. Uno dei risultati più interessanti dell’applicazione di questa teoria si ha in relazione alla traduzione del celeberrimo detto di Anassimandro, cui è appunto dedicato il volume di cui parlo. Secondo la traduzione corrente il detto di Anassimandro viene reso in questi termini: “il principio degli esseri è l’infinito… In ciò da cui gli esseri traggono la loro origine, ivi vi si compie altresì la loro dissoluzione, secondo necessità: infatti reciprocamente scontano la pena e pagano la loro colpa secondo l’ordine del tempo”. Nel suo libro Semerano dimostra che il termine utilizzato da Anassimandro e cioè Apeiron, la prima parola della filosofia, solitamente tradotto con il termine infinito secondo la lezione di Platone e Aristotele ripresa da tutta la storia della filosofia, in realtà vuol dire molto più semplicemente terra, polvere, fango derivando dall’accadico eperu, vicino al semitico apar. Il detto di Anassimandro parlerebbe, in virtù di questa nuova impostazione, della terra, la polvere, l’apeiron dal quale nascono e al quale ritornano gli esseri, rivelando significative affinità con la sentenza biblica e quindi con la cultura semitica, dove il creatore plasma il primo uomo con l’apar, la polvere della terra, cui l’uomo è destinato a ritornare dopo la maledizione divina. L’apeiron, che avrebbe un significato più modesto e vicino all’acqua di Talete e all’aria di Anassimene, come infinito ha sollecitato per ventitrè secoli le acuzie critiche degli interpreti, una storia che va da Aristotele fino ad arrivare alle pagine piene di pregnanza filosofica di Severino e Heidegger, un prodigioso sforzo di penetrazione che parla una volta di più dell’inappagato desiderio umano di assoluto cui potremmo apporre come epigrafe conclusiva le parole di Novalis: “Cerchiamo dovunque l’incondizionato e troviamo sempre e soltanto cose”. Credo che anche solo questi brevi richiami illustrano la portata dell’ipotesi di Semerano, uno studioso che nel corso della sua attività non ha trovato in ambito accademico il giusto grado di considerazione, probabilmente perché la sua è una proposta che fa vacillare apparati culturali, autorità e poteri collegati a quegli apparati. Avvicinarsi a questa nuova prospettiva è, comunque, una avventura degna di essere intrapresa, nella consapevolezza che “il futuro ha un cuore antico, e avviare un nuovo rapporto culturale con il remoto passato salda una nuova unità spirituale fra noi e i popoli scomparsi che come astri spenti, continuano a irradiare il lucente messaggio che giunge sino a noi. A essi mancò il dovuto riconoscimento di essere alle origini operanti sugli avvenimenti dei nostri destini”.

1 commento:

adverteaser ha detto...

(nella convinzione che tu ci sopravvalluti)(nel piacere di questo melting pot culturale)
Sa limba este sa oche e s'anima.
Sa limba este sa boghe e ss'anima.
La lingua è la voce dell'anima.
Sfumature. Dialetti. Subculture. Identità. Simboli. Riconoscimenti.
Quanto senso nei dettagli.
Anassimandro, che volevi dire? Forse parlavi di polvere, e ti hanno reso alfiere dell'infinito.